
Sui social capita sempre più spesso di leggere post o riflessioni di insegnanti che raccontano episodi scolastici:
un comportamento scorretto, un colloquio con una famiglia, una battuta di uno studente.
Spesso si tratta di racconti in buona fede, nati dal desiderio di condividere un’esperienza o di aprire un confronto sulla scuola.
Ma la buona intenzione non basta: anche senza fare nomi si può violare la privacy.
Molti docenti credono che l’anonimato equivalga alla tutela dei dati, ma è un errore comune.
Anonimo non significa non riconoscibile, soprattutto in contesti come la scuola, dove tutti conoscono tutti.
Quando l’anonimato è solo apparente
Il Regolamento (UE) 2016/679 – GDPR definisce come dato personale
qualsiasi informazione che permetta di identificare, direttamente o indirettamente, una persona fisica.
Non serve quindi indicare il nome di uno studente: bastano elementi come la classe, il tipo di scuola, l’età o un episodio specifico.
Un esempio:
“Uno studente del triennio tecnico, molto bravo ma disattento, oggi ha discusso con la madre dopo la consegna dei voti.”
Chi non conosce la scuola non saprà di chi si parla, ma chi vive quell’ambiente può riconoscere la persona.
In termini giuridici, si tratta già di un trattamento di dati personali non autorizzato.
Il dovere di riservatezza del docente
Gli insegnanti entrano ogni giorno in contatto con informazioni riservate: difficoltà, fragilità, situazioni familiari,
dati di salute. Tutti elementi che rientrano nella sfera privata degli studenti e che devono restare protetti.
Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.P.R. 62/2013) lo afferma chiaramente
all’articolo 12:
“Il dipendente non utilizza a fini privati informazioni di cui disponga per ragioni d’ufficio,
né divulga informazioni o notizie che non siano state già rese pubbliche o che non siano di pubblico dominio.
Il dipendente rispetta la riservatezza delle informazioni acquisite nell’esercizio delle proprie funzioni,
anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro.”
Pubblicare online episodi scolastici riconoscibili può quindi configurare una
violazione della riservatezza e, nei casi più gravi, un illecito disciplinare.
Non si tratta solo di burocrazia, ma di etica professionale.
Libertà di espressione e responsabilità educativa
La libertà di parola è un diritto, ma nel contesto educativo incontra un limite preciso:
la tutela dei minori.
Raccontare in pubblico situazioni riconoscibili vissute a scuola rischia di
incrinare il rapporto di fiducia tra studenti, famiglie e insegnanti.
Riflettere sul proprio lavoro è utile e necessario, ma occorre trasformare i casi concreti in
esempi generali e decontestualizzati.
Si può parlare di scuola senza riferirsi a persone reali, discutere di metodi e problemi
senza raccontare vicende identificabili.
La privacy come parte dell’educazione
La privacy non è solo un obbligo legale, ma una componente della relazione educativa.
Proteggere la riservatezza significa rispettare la persona e insegnare agli studenti
che i dati, le parole e le immagini hanno un valore e vanno trattati con responsabilità.
Prima di pubblicare un post o un commento, ogni docente dovrebbe chiedersi:
- Qualcuno potrebbe riconoscere chi sto descrivendo?
- Sto usando informazioni acquisite nel mio ruolo professionale?
Se la risposta è “sì” o anche solo “forse”, la scelta più corretta è non pubblicare.
Un patto di fiducia da custodire
La scuola si regge sulla fiducia.
Gli studenti si affidano agli insegnanti non solo per imparare, ma per essere rispettati nella loro unicità.
Custodire questa fiducia significa evitare che l’aula diventi materiale da racconto pubblico.
Essere non nominato non significa essere non riconoscibile.
Quando un episodio scolastico oltrepassa il confine della classe per finire online,
anche un singolo dettaglio può trasformare una riflessione in una violazione.
Difendere la privacy a scuola non è una formalità: è un modo concreto di educare al rispetto.
Pierluigi Lai
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Riferimenti normativi
- Regolamento (UE) 2016/679 – General Data Protection Regulation (GDPR)
- D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 – Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, art. 12
